Deliadi
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INNO AD APATE TIRITERA PER VITO MATERA
In cima all’Olimpo greco, più in alto di Zeus, si annida Apate. Per lei Odisseo si finge Nessuno nel tugurio di Polifemo; per lei Zeus delira, perduto amante della noiosa Era. Il canto di Apate non è innocente come quello di Femio. E’ un seducente ed atroce canto del cigno. Apate cattura, Apate uccide: e chi si lascia catturare vivrà più a lungo, o gorgianamente, sarà più saggio di chi non si lascia catturare. Apate è infatti una sirena e si nutre di mimesi. Sue ministre sono le Deiladi, che come dice l’arcaico ed arcano inno Ad Apollo “di tutti gli uomini le voci e gli accenti sanno imitare. Ciascuno direbbe d’essere lui stesso a parlare. Così bene si intona loro la bella “Aoidé”. Apate è quell’Elena, che girando tre volte intorno al cavallo di legno, chiamava per nome i più forti dei Danai , “imitando la voce delle consorti di tutti gli Argivi”. Apate – Elena – Poesia. Elena inganna con una droga, ma anche da ascoltare non solo da bere. Apate – Elena non fu però analfabeta. In casa di Priamo, “tesseva una tela grande,/ doppia, di porpora, e ricamava le molte prove/ che Teucri domatori di cavalli e Achei schinieri di bronzo/ subivan per lei, sotto la forza di Ares”. Un atelier di tele inaudite ed inebrianti quello di Elena, nel quale una pagina era ancora una tela. Al corredo di Elena – Apate appartiene anche la tela di Vito Matera, da sempre, da quando esordì nel ’75 con “Tonino e la mosca”, esordio seguito dalle “Allucinazioni concrete”, Bergamo ’79, tutte in cerca di luce. Perciò Matera ha percorso con naturalezza il complicato sentiero del fare arcaico. Tela dopo tela egli compone il suo inno ad Apate con la raffinatezza di un poietes d’altri tempi; con la gioia di scoprire nella tela il telaio, di avventurarsi nel labirinto poetico multiforme: “la via in su e in giù è una medesima” diceva Eraclito, il pioniere della prosa, così profondo e difficile, che per Socrate ci voleva un palombaro di Delo per giungervi al fondo, ma complicato già nel congegno poetico: un libro aperto, circolare, in cui “è comune l’inizio e la fine”, in cui i capitoli tematicamente e formalmente erano concentrici, e con capitoli a spirale come quello sull’anima, per il quale, avvertiva Eraclito, “per quanto cercherai non riuscirai a trovarne i confini”. Anche l’inno di Matera è circolare, lo dice una tela eraclitea a due ganci, e con duplice lettura verticale. Ma al bivio sono un po’ tutte le figure di Matera. Le Deiladi bilingui mettono a nudo volti femminili dietro maschere plumbee, mentre l’Elena purpurea, in trionfo, scopre esterrefatta il suo eidolon nello specchio di Narciso e miniaturizza un paesaggio in bilico tra pugliese e miceneo. E “ Mousa mimusa” resta esangue a viso scoperto e la sua vita sta sospesa alle zampe bisillabiche del sigillo alato. Le figure di Matera non hanno braccia che per maschere e volti riflessi. Perciò impressionano le due interminabili braccia protese in un amplesso imminente dolcissimo come la Sigizia euripidea di Muse e Cariti nell’Eracle. Ma la mimesi non è solo nel “farmaco” anestetico di Elena. Apate si annida anche nei panni virili di Odisseo. Matera è come Odisseo, dopo l’incontro con Nausicaa. L’aristia che egli racconta è una sola, la sua. E per cantarla, è assetato di ascolto, ascolta anche lui le Sirene, e ne resta sedotto. Ma non si slega, anzi distende i suoi nastri lucidi e flessuosi. E t’accorgi che non provi soltanto diletto, a sentirlo. Senti il contagio delle Sirene, patisci l’incontro di morte. Sai che alla fine vincerà Dioniso, che Apollo non perderà, o un attimo prima di sprofondare negli abissi di Lete, scopri per l’ennesima volta che Apollo e Dioniso non sono che due colori di Matera.Francesco De Martino - marzo 1984
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LA POESIA DELLA LUNA/DONNA/CAVALLO
Il binomio su cui si deve riflettere per questa rassegna di lavori di Vito Matera (tanto distante dalla petrosa ed ispida murgia malinconica, tanto vicino ai territori della più pura e limpida poesia) potrebbe essere – anzi è – inventato in grafica e colore. Si respira così un’aria di trasfigurazione, per intenderci una trasfigurazione, come concetto e risultato, che avrebbe fatto vibrare dolcemente Eliot e Kirchner, Sandro Penna ed Italo Calvino… Le opere di Matera ruotanti intorno alla triade luna/donna/cavallo abbisognano di musica, per esempio larghi da Phelleas et Melysende (solo per usare un suggerimento) e proprio perché da tempo la musica è stata straniera (resa tale…) alle vicende della parola e del segno. Quindi va bene identificare le possibili due diverse prospettive dell’arte di Vito Matera: lo slancio irrefrenabile verso la libertà (che è diverso dallo slancio libero nell’ambito dell’anarchia) e la ricerca meticolosa di un ordine possibile. L’aspirazione alla libertà (del segno e per mezzo del segno) è una costante che trova nella celebrazione dell’uso della linea/trasparenza la massima attuale espressione dell’artista. Direi quasi una “ricerca” per risalire all’interno, là dove nasce misteriosamente la bellezza…, là dove sono labili i legami terrestri (e non è un male che qualche volta viva una tale speranza). E non è un male pure che ogni tanto l’artista si trovi a fare i conti con un’ispirazione dolce, diversa da quella cosiddetta “forza espressiva” che rassomiglia più alla violenza che all’arte come morbidezza ed incanto. Il cavallo sulle ruote, “scritto”, o inscenato nel quadro (nella pala del quadro) e libero a suo piacimento in un perimetro sfuggente nel più interno, sposa l’ideologia della fascia che quasi vuol rappresentare l’ordine estetico e lineare del racconto; non è il cavallo che fece urlare a Lacoonte “timeo Danàos…”, non è un dono avvelenato: è invece poetica invenzione (o reinvenzione) del desiderio non solo di vivere, ma di vivere nella signorilità serena del tratto esistenziale. E la serenità Vito Matera la ritrova anche quando decide di scrivere nell’opera i simboli della civiltà industriale, tralicci neri e fili, e cavi elettrici lungo le direttrici lineari del paesaggio sempre collinare e perciò sempre ispirato e/o sognato. La donna è raccontata con tutta la meticolosità che la narrazione merita: sperimentando così, nella freschezza, e nella sorprendente intensità, l’intero registro dei colori, della linea libera ma pure razionalmente compassata, della spontaneità che dissolve ogni forma data. Come se la linea fosse subordinata a un ritmo sovrapersonale pur conservando nervose (ed anche) solenni vibrazioni. Così la fantasia dell’artista si realizza appieno e, nel risultato, sui più svariati piani cromatici. La luna di Vito Matera non è desunta da nessuna iconografia tradizionale meridionale: era “ora” che il mondo girasse per altri versi e si narrasse con altre metodologie! Già il blu dei colli e del paesaggio (come nato dall’inimitabile dell’acquarello…) sanno della fragilità del vetro. Se dipendesse da me, e se vi fosse un testo teatrale per “I giochi di Norma” di Pier Antonio Quarantotti Gambini, sceglierei Vito Matera per disegnare bozzetti e quinte e fondali per una straordinaria ambientazione scenografica… Allora si spiega perché il pregio più alto di questa mostra risiede nel ruolo poetico che Matera ha saputo accreditare ed attribuire alla linea: fonderla nel tenue e nella delicatezza col colore senza che perdesse in energia, in modo – anzi – che acquistasse in “disegnosità” ingegnosa acquistando fantastica autonomia non divergente dalla colorazione della scena, ma soprattutto libertà interiore e leggerezza intesa come concetto ed “idea della pagina compiuta.Leonardo Mancino - maggio 1986
Bestiario Minimo
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Bestiario Minimo, 2006, Mario Adda Editore, Bari
BESTIARIO MINIMO
Esclusi cani e gatti, dalla nostra vita sono spariti gli animali. Non ci sono più asini, né si vedono muli. Macellati man mano che prendevano sopravvento auto e camion. Talvolta, di notte, percorrendo una strada di campagna è possibile ancora incrociare con i fari una volpe che fila a coda tesa da un margine all'altro. Le volpi sanno gli odori della polvere da sparo, li sanno le quaglie e le lepri. Oppure non è difficile salendo verso i primi contrafforti dell'Appennino imbattersi in un riccio o un topo di campagna. Filano come piccole macchine da guerra. Restano nei nostri cieli sempre più disabitati gli stridi delle rondini, i richiami di passeri e fringuelli, di merli gazze e gabbiani. Di gabbiani si vestono l'Adriatico e le mille discariche che infestano le campagne. A vederli da lontano, mentre beccano tra le immondizie, sembrano un campo di camomilla semovente o una siepe di biancospini. Ma è dolcissimo il verso rauco della gazza che vola sui rami dell'abete nel mio giardino, col suo frac bianco e nero. Sembra comunque proprio tramontato il tempo del dialogo tra uomini e bestie e solo si arrischiano a farci visita mosche falene zanzare moscerini formiche. Mentre vengono in casa pesci ovini e bovini in forma di cibo. Oppure chiusi in un acquario i piccoli pesci esotici multicolori. Perciò abbiamo pensato di dedicare agli animali una cartelle di incisioni. Ne è autore Vito Matera un pittore onirico e fiabesco, originario di Gravina e gli abbiamo affiancato una manciata di scrittori e poeti di varia provenienza geografica e culturale. Ognuno di loro ha descritto un animale. Sono Maurizio Cucchi, con un testo per i propri gatti Taddeo e Gioacchino; Clara Sereni, che si preoccupa per il fatto che i bambini di città non conoscono più gli animali; Luciano Luisi, notorio collezionista di conchiglie e in questo caso presente con due componimenti dedicati alla tellina e alla Cypraea Rosselli; Giovanni Russo, che scrive un'ode al mulo; Tano Citeroni, che ci ha lasciato prematuramente nel corso del 2004 e al quale dedichiamo la cartella, si preoccupa dell'asino e ironicamente di se stesso visto come bestia trionfante e infine Romana Petri che ci parla di un altro animale in estinzione, l'istrice. Un fuori programma ce lo offre Pedrag Matvejevic, avrebbe dovuto scrivere di bestie e invece ci ha voluto parlare di una pianta del deserto, la rosa di Gerico. Si sa che le scelte non sono casuali e spesso si tradisce una sorta di transfert col soggetto delle nostre scritture.Raffaele Nigro - 2006
De Arte Venandi Cum Avibus
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A CACCIA DI SEGNI, SIMBOLI, PAROLE
A caccia di segni, simboli, parole nell’arcano mondo medioevale seguendo un trattato ad hoc: il “De Arte Venandi cum avibus” di Federico II. Spinto da una curiosità, divenuta accanimento filologico, Vito Matera ha ripercorso pagina dopo pagina il libro imperiale, traendone spunti per una rivisitazione fantastica. Le sue tavole hanno l’aspetto di epigrafi, ma non sono collocate nei blocchi murari di castelli e chiese, bensì lette su leggii, come spartiti musicali. A suoni arcaici rimandano le tavole, in cui lettere come note, attraversano la superficie del foglio distendendosi lungo variabili traiettorie, disegnate dal volo di aironi, falchi, colombi, scelti tra le 500 specie riprodotte nel Trattato di Falconeria di Federico II. L’occhio avanza da sinistra verso destra, lungo una linea ondulata, si avvolge in condotti spiralici, sale e scende e ritorna indietro. Si ferma sul margine del foglio, inseguendo oltre il margine le scritte. “In contemplando seu in sciendo; divertere possunt et cedere in volando” come l’eco di cinguettii ammonitori, brandelli di parole, fuoriusciti dal “De Arte venandi” diffondono il verbo dell’Imperatore. L’ordine della lettura tipografica cede al disordine creativo della composizione, che incoraggia uno sguardo colorato d’emozioni e passionalità. Il gioco delle analogie e dei rimandi guida l’artista nel suo vagabondaggio poetico, alla ricerca di parole, frasi e immagini che divengono spunto per le sequenze di un nuovo racconto, ispirato dall’ arte della caccia. Ben lontane dagli odierni incubi ecologici, le pratiche venatorie raccontate da Federico consentono di seguire passo dopo passo i falconieri, cui subentrano (nel 2° vol.) abili addestratori di uccelli. Non volendo descrivere “Le cose che sono come sono”, Vito Matera ripropone tracce di un mito, che è favola, leggenda e storia. Non il contenuto del libro lo ispira, ma il mistero da cui è avvolto. Trafugato, espugnato, scomparso, ritrascritto il manoscritto miniato del “ De Arte Venandi”, nella versione giunta a noi, è di incerta attribuzione : opera del padre o del figlio Manfredi? Le molteplici illustrazioni ricche e preziose, che accompagnano il testo, aprono molti varchi. Ci s’immagina l’Imperatore circondato da una corte di pittori, disegnatori e grafici . Si pensa ad una équipe editoriale - nello stile odierno- o alle qualità di un unico proteiforme autore: lo stesso Federico? L’artista che oggi si immerge in questo mondo misterioso lo fa con l’animo dell’antico amanuense che rivive suggestioni e atmosfere. La parola divenuta immagine raggiunge il massimo di espressività. Cambia colore, formato, dimensione, ritmo, spessore per suggerire viaggi sospesi tra reale e irreale, in spazi della memoria e dell’immaginario, luoghi concreti e tangibili come ben sanno coloro che si aggirano, ancora, tre le mura dei castelli federiciani. Lì, il pittore, ritrovando i ritmi del passato, diventa calligrafo e sospeso in un tempo rarefatto, dipinge le parole come pergamena. La lettura esige ritmi alternati. Allo sguardo sintetico segue l’analisi minuziosa dei particolari, in cui - come in un testo cifrato - sono racchiusi i segreti di questa scrittura. Nell’equilibrio compositivo delle pagine, la parola occupa uno spazio minimo, lasciando che il vuoto le dia le sembianze di un’apparizione. Galleggiando sul foglio, le righe di scrittura , ben oltre il significato esplicito, consentono di riannodare il bandolo di una matassa, il cui filo ricuce visioni, sogni, ricordi. L’immaginario federiciano divenuto archetipo collettivo si ripresenta -oggi- in un nuovo racconto. L’eredità medioevale e quella contemporanea, dalle tavole parolibere futuriste alla scrittura verbo-visiva e al metalinguaggio degli artisti concettuali, è riattraversata da Vito Matera, con il tocco leggero di chi ha in animo - semplicemente- di raccontare una favola, sia pur con tutti gli onori del caso.Anna D’Elia - dicembre 1994
Tabulae Pictae
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TRA CIELO E TERRA
Raccontar favole può essere, nella crisi di valori, un modo per ritrovare verità antiche, dimenticate. Nelle sue «Tabulae Pictae», Vito Matera sceglie narrazioni legate a luoghi mitici. Le cattedrali di Puglia divengono il pretesto per affabulazioni liriche. Le facciate si sciolgono al sole, colpite da raggi intensi, che le ricoprono di aranci, violetti. Investite dai flutti marini divengono azzurre, bluastre. Tra le crepe degli intonaci si ritrovano reperti fossili, incrostazioni del passato, voci che aggiungono storie a storie. Con questi lavori, l’artista accentua la sua attitudine per la ricerca materica che assorbe nei suoi spessori le valenze narrative affidate, prima, alla figura. Il colore è impastato alle malte, ai gessi, alle sabbie, alle terre con cui l’artista ricopre le sue tavole sagomate. Sulla superficie, divenuta facciata, la cultura e la natura si ritrovano, di nuovo, unite. Simbolo di unione tra terra e cielo, le pale d’altare levano inni pagani alla fertilità e all’abbondanza, come gli alberelli della fortuna ricolmi di ogni fiore, frutto e raro uccello, spuntati tra casa e casa, perché non si dimentichi che la magia abita tra noi.Anna D’Elia - 28 ottobre 1993
TABULAE PICTAE, TAVOLE DIPINTE
Tabulae Pictae, tavole dipinte, così Vito Matera definisce le sue opere. La dolcezza lirica di Matera che ha abbandonato in quest’ultima produzione la visitazione del mondo degli animali domestici propone una scorribanda memoriale nella pittura classica italiana. Le tavole che presenta infatti richiamano alla memoria le pale d’altare del basso medioevo. Sono forme che riproducono le facciate delle cattedrali, oggetti d’arte che rifiutano di essere incorniciati e che accettano nella colorazione la gamma delle dorature barocche. La giocosità di questa produzione chiama in qualche misura Pino Pascali e soprattutto rinvia ad una nostra condizione preadolescenziale. Matera esalta infatti i sentimenti rapiti dell’infanzia, l’atmosfera stupita che incanta gli occhi semplici di fronte ad un mondo fantasioso e metafisico, di fronte alla purezza delle forme, alla geometria, al colore e a quella quinta di calce cielo marmo volute barocche e piccoli e grandi cori intarsiati nei legni policromi delle cattedrali. TABULAE PICTAE è insomma una rivisitazione della religiosità e dell’architettura sacra diventate sogno e paesaggio incantato.Raffaele Nigro - 7 Dicembre 1991
LE CATTEDRALI PUGLIESI HANNO PERDUTO I MARMI
Le cattedrali Pugliesi hanno perduto i marmi ed hanno ricevuto i colori dalla grazia. Gli uccelli di profilo, comprese le galline se ne stanno immobili in attesa di un arcobaleno o di una pennellata. Una scala non sale nè scende, ma tiene in bilico un equilibrio religioso. La luna in cima alle virgole misura la qualità delle maree;il sole invece tenta di cancellare i profili dei paesaggi. I rosoni delle chiese sono senza vetri, ma il vento non riesce a gonfiare nè ninnananne nè ulivi nè preghiere perchè il vento è dipinto solo di giallo. I crateri che appannano le pareti dei castelli non diventeranno mai cristallo perchè il compensato è un legno senza nobiltà e ha un cattivo carattere. Vito Matera usa ironia e malinconia incorniciando la vita immobile sulle lancette di orologi perchè pigra e infantile come una cantilena.Tano Citeroni - Ottobre 1994
L'INTENSA VISIONE POETICA SUGGERITA DAL REALE
...un'ispirazione naturalistica e antropologica, che, filtrata dalla ricchezza interiore e dalla fertile creatività dell'autore, sfocia in un'interpretazione compositiva e cromatica intensamente intrisa di poesia, in cui domina l'elemento visionario. L'intensa forza del colore – la profondità dei blu, l'ardore delle tonalità accese – sembra scaturire dalla fulgida solarità mediterranea che ha plasmato il sentire di Matera ad un' armoniosa e gioiosa percezione estetica dell'ambiente. Un senso di raffinato ottimismo, anche se velato di melanconia, si sprigiona dalle sue tavole lignee, trattate a tecnica mista per ottenere un colore pieno e pastoso, che talvolta presentano collage di studiati inserti di legno a significanza figurativa. Un'invenzione favolistica, intimamente connessa ad una vena poetica alimentata da una interiorizzata classicità, ma pure dalla libertà ideativa suggerita dal surrealismo, proietta ogni opera di Vito Matera, per la sua originalità, in un'aura d'incanto espressivo, in cui struttura, segno e cromie si fondono in un unicum altamente significativo. Ad un'analisi approfondita si può affermare che le realizzazioni dell'artista pugliese rispecchiano sia la veemenza del suo io creativo intrisa nella doviziosa e ricercata tavolozza e nelle alate invenzioni liriche, sia un'esigenza di misura, indubbiamente di origine culturale, trasfusa nelle equilibrate composizioni, nelle sobrie ed essenziali stilizzazioni, nelle figurazioni appena suggerite – ad esempio, di impronte di rosoni di una cattedrale-. Poesia e fascino, vigore e dolcezza, canto e riflessione, candore conoscitivo e spontaneità espressiva, questa risulta essere l'arte di Vito Matera.Odette Gelosi - La voce, giugno 2004
I Tarocchi della Murgia
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Premio "Tommaso Fiore" 2001.
I TAROCCHI DELLA MURGIA DI VITO MATERA
…Vito Matera interpreta gli Arcani maggiori nella chiave di giocosità solare che gli è propria. Matera è un pittore chiarista volante sfottente sognante espressionista fumettante guizzante illustrante e ironico. Un po’ Chagall e un po’ Bueno, un po’ Pericoli ma anche Grosz. La sua mano gioiosa e voluta mente adolescenziale deforma fino alla caricatura le figure di un mondo che sembra sparito o in via di sparizione. Figure che penetrano nel riquadro del disegno da ogni angolo, di soppiatto, ora volando ora arrampicandosi ora affiorando dal nulla. È il mondo della provincia, dove l’alba non sarà più risvegliata dai galli e dalle campane ma dove i ragazzi continuano a giocare per strada, nonostante la lotta armata della televisione e dei videogiochi, dove i contadini non scendono più ai campi a dorso d’asino o di mulo ma i trattori fanno sentire il loro crepitio, dove le discoteche rastrelleranno pure i giovani, tuttavia lasciando spazio allo struscio serale o allo stazionamento in piazza o davanti al pub. Un mondo che si evolve dunque in ragione del mutamento dei tempi ma che non potrà mai rinunciare alle sue figure, ai suoi riti, ai suoi ritmi. I Tarocchi della Murgia, che non hanno niente a che spartire con le arance di Metaponto o della Sicilia, vengono dopo Il Mercante della Murgia, che qualche anno fa Ginetto Guerricchio disegnò per descrivere con la propria mano espressionista e lirica la pietrificazione contadina ma la anche la fauna e la flora di questo strano paesaggio tosato desolato ventoso incolto e pietroso che è la Murgia altamurana. Volle raccontare l’anticamera dell’Africa maghrebina alla sua maniera. Ma in quel racconto mancava la vita del paese, mancava il raccordo tra campagna e città, tra i luoghi del silenzio e la comunità fracassona. Un vuoto che colma oggi Vito Matera e che non tralascia alcuna componente. I bambini prima di tutto, bambini come stelle nel cielo dell’esistenza e come invito a considerare la vita un gioco senza pause. Un invito a risvegliare appunto il soggetto ingenuo che è dentro di noi, perché quel borghese affiorato sullo specchio proprio stamattina ancora sappia ritrovarsi in una processione, in un rito di tradizione, in un lavoro agreste o nelle pause di silenzio che appartengono alla natura. Poi il parroco, inquieta figura di sopravvissuto all’ecatombe delle tradizioni ma che dopo i grandi contrasti sessantottini è tornato a sedersi nella vita del paese come un papa sul soglio pontificio. Il parroco come depositario dei segreti del paese, un medico che ha il naso in tutte le case, in tutte le felicità e infelicità dei vicoli. La grande storia, ridotta qui alla quotidianità, con in testa l’imperatore Federico, ancora lui! una figura ingombrante per tutto il Mezzogiorno, il più ossequiato e venerato dopo Cristo. Federico e il suo castello ecclesiastico a doppio campanile, la Cattedrale di Altamura, Federico e la sua voglia di cacciare col falcone donne e starnoni. E così via, a seguire, con pastori sotto cieli a pecorelle nel senso letterale dell’espressione, il carro della Madonna del Buoncammino e la ruota della Misericordia, la fattucchiera, la torre dello scaricavascio e un appeso che non ha più i connotati umani, come nella tradizione dei tarocchi ma è diventato il porco, l’appeso per antonomasia nelle masserie della murgia. Una murgia che scopriamo antica, nel senso che fu abitata dai draghi non volanti e dai Ciccill, principi pezzenti vestiti da pastore. Insomma una taroccata di poveri cristi, con una localizzazione di tutte le reboanti figure della tradizione esoterica, un’operazione di riduzione dal gigantismo al minimalismo descrittivo, con la finalità di portare la storia a dimensione più umana, la commedia della murgia e dei paesi murgiani, con Altamura per protagonista e Cassano, Santeramo e Gravina per comprimari. I disegni di Vito riproducono dunque la vita di un territorio ampio, che va da Altamura a Matera ed è proprio nei semi, qui soltanto riprodotti in quattro esemplari, ma che vi assicuro nel suo studio ci sono, nei semi maggiormente fanno notare la contiguità delle terre e delle loro tradizioni, delle loro culture, quando chiamano in causa non bastoni coppe denari e spade ma asini uva grano e colacola, i fischietti dei fratelli Loglisci e lo diciamo sottovoce, vista la ruggine che esiste tuttora tra Altamura e Gravina, i Loglisci artigiani in Gravina di Puglia. I Tarocchi della Murgia, d’altro canto, sono pensati proprio in questa accezione, col desiderio di offrire una visione culturale omogenea, e affinché la cartomante raffigurata nella papessa sia colei che apre il registro dei fortunati e degli sfortunati e colei che semina nella notte e nel giorno della murgia i semi del destino. E se l’ulivo della luna appare allora come il grande noce di Benevento/dove le streghe si davano appuntamento/con acqua e con vento, i campi coltivati e no bucolici e georgici abbandonati silenziosi coltivati pascolati e poi la città rumorosa e parlottante, la città indagatrice tradizionalista bigotta e peccaminosa sono i grandi luoghi della vita, contenitori e metafore di un viaggio che si chiude senz’altro con la morte ma che è fortemente insaporito dal mistero. Raffaele Nigro - 18 dicembre 2000LA MURGIA DELL’ENFANT TERRIBLE VITO MATERA
Che si fa con le carte? Si gioca! E che ci fa Vito Matera con i tarocchi? Ci gioca! Ecco svelato l’arcano disegno di questa simpatica operazione in cui s’incontrano, finendo con il sovrapporsi, due vecchi nuovi giochi: quello della vita, rappresentato fin troppo bene dalla fascinante simbologia dei tarocchi, e quello dell’arte, rappresentato da quell’estrosa macchina inventiva che è Vito Matera da Gravina in Puglia. E come in tutti gli incontri riusciti, i due poli in gioco non si elidono ma si potenziano vicendevolmente, in una relazione di andata e ritorno che moltiplica, evidentemente, il risultato finale, caricandolo di sicura originalità. A giovarsi di questo risultato positivo, questa volta, è proprio la dimensione del gioco, un gioco affidato all’intelligente ironia con cui Vito fa parlare a briglia sciolta l’enfant terrible che tiene nascosto dentro la matita. Terrible, oltre che sapiente, visto che il suo pallino è quello di mettersi a ribaltare-rovesciare le leggi della realtà, a cominciare da quella di gravità. E volano così le case, le chiese e le persone, insieme con i federiciani aironi che sbucano dal De arte venandi per attraversare il cielo del 4. E si sgangherano i paesaggi sotto una pioggia di fogli e matite volteggianti sull’onda di un raptus. E gli angeli, scombussolandosi non più di tanto, provano, nel 14, a farsi tentare da bacco, o a fare il carabiniere dentro l’8, o il postino dentro il 20. Ma questo bambino non si limita a capovolgere le regole del gioco, perché gradisce mettersi in mezzo ed esibirsi, di persona, come fosse dinanzi ad una macchina fotografica. In questo modo, in questo mondo, il bambino di Vito (che combacia esattamente con il nostro) riesce a fare dei tarocchi quello che sono, né più né meno: carte da gioco, signori miei, ovvero carte per giocare con i minimi e con i massimi sistemi (la terra, la forza, l’amore, la follia, il potere, per esempio), usando - ripeto- il passepartout dell’ironia, di cui sembrano del tutto sprovvisti quei personaggi, televisivi e non, che sfruttano i tarocchi per dare magiche, improbabili risposte ai mille fantasmi figliati dell’ansia umana. Insomma, sia che stiamo dentro il 17 a sfogliare la girandola delle stelle, sia che incontriamo lo sguardo senza volto della morte presso lo stazzo del 13, sia che contiamo nubi a pecorelle nei panni del pastore solitario posto, nel 9, fra i cardi e il silenzio, sia che scopriamo l’enormità del tempo che occupa l’11 tra una quercia e un dinosauro, ricordiamoci che con tutto questo, con la vita e con la morte, si può anche giocare, e ricordiamoci che tutto questo può essere scritto -come fa Vito- con le lettere minuscole. Ricordiamoci, insomma, che per attraversare la Murgia del bene e del male è necessario, se non indispensabile, farsi un cuore bambino. La Murgia: già, la murgia, la madre di tutti i cardi e di tutti i chianconi, metafora del paesaggio essenziale della vita, luogo dell’anima traboccante di suggestioni persino metafisiche, orizzonte primario sempre più caro a noi pugliesi, perché tra i suoi confini “giocano” simbologie così arcaiche, così vere, da farci sentire creature poggiate sulla roccia di uno spessore antropologico ancestrale, nonostante la civiltà della fretta ci avvolga dalla testa ai piedi. Murgia, quindi, come spazio privilegiato per un incontro ravvicinato tra l’uomo, la sua biologia, la sua cultura, il suo senso primordiale confinante con il regno animale e vegetale, dove il tempo è qualcosa di più che un avverbio di tempo, tra l’altro. E così, rimodulando con ampio margine di originalità un’idea già giocata qualche anno fa dalla buonanima murgiana di Ginetto Guerricchio, Vito Matera e i pensatori di questa giocata, hanno allestito una de-vertente risposta all’inossidabile nostro bisogno ludico (un bisogno che non ha bisogno di superenalotti, canzonissime e videopoker per trovare un creativo soddisfacimento). In più, ci viene ribadito, se mai ve ne fosse la necessità, che in un mondo di carta e di carte, tra balle di carta-moneta, igienica, topografica, in mezzo ad un mucchio di carte sì, carte no e altre cards, tra diecimila carte da bollo e carte da imballo, tra vari incartamenti e numerose carte false, è necessario usare la carta del gioco, per garantirci la sopravvivenza. Così per lo meno la pensa un complice testimone che ha spesso giocato con Vito Matera e che, per gioco, si fa pure chiamare Lino Angiuli. Lino Angiuli - 18 dicembre 2000
Briganti a Colori, Briganti in Bianco e Nero
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Queste opere sono esposte in permanenza presso il Polo della Cultura della Provincia di Potenza
Fogli di Romagna
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ALTRE PICCOLE TERRE DI ROMAGNA, FANTASIA E GIOCO NELLE CARTE DIPINTE DI VITO MATERA.
FORLI' - C'è in questi giorni in città una mostra che presenta una serie di paesaggi e vedute urbane nella nostra regione; ma non si tratta della grande retrospettiva dedicata a Marco Palmezzano, che pur restituisce un'immagine per certi versi inedita delle terre di Romagna (nelle tavole del forlivese si colgono infatti ampi brani paesaggistici così com'erano nel Rinascimento; e la sorpresa deriva soprattutto dal fatto che vi si scoprono non così diversi da ora, non mutati nel lungo tempo intercorso). Il riferimento è ad una deliziosa raccolta di fogli, impaginati singolarmente entro cartelline "pass-partout", che nel Punto Einaudi di via Lazzaretto occhieggiano tra i tanti libri sugli scaffali o se ne stanno adagiati in sparso disordine sul ripiano di un ampio tavolino. E' così la mostra "Fogli di Romagna", inaugurata alcune settimane or sono, che Vito Matera, artista dai molteplici interessi e dalle ancor più numerose e preponderanti suggestioni filosofico-letterarie, lascerà a disposizione dei visitatori fino al 7 gennaio. Come argutamente lo definisce l'amico scrittore Raffaele Nigro, "Matera è un pittore chiarista volante sfottente sognante espressionista fumettante guizzante illustrante e ironico"; e questi tratti si colgono benissimo nei lavori esposti, tutti raffiguranti località della Romagna, come in un ideale e fantastico itinerario turistico, surreale e magico, non di rado divertente o francamente comico. Accompagnano i piccoli dipinti, resi con una tecnica che molto deve all'acquerello ma anche al disegno tratteggiato a china e al collage, filastrocche e giochi di parole, brevi componimenti poetici e calembour con minuta grafia racchiusi nei coloratissimi riquadri o dilaganti nel supporto cartaceo, dove a matita spesso prosegue la raffigurazione stessa, quasi l'artista non riuscisse a contenere la propria straripante ispirazione (o un'incontenibile voglia di gioco).Ecco allora scorrere un'assolata Faenza, che "per far dispetto al sole diventa rossa in faccia", o una Terra del Sole vista come "una Romagna che si veste di Toscana"; Cesena è racchiusa nella Rocca Malatestiana, nei pressi della quale Matera afferma di aver "incontrato un cane dagli occhi dolcissimi". Di Forlì l'artista coglie un bagno di stelle nel Parco urbano o "l'odore aspro della pioggia bagnata di terra" (sì, proprio così) in una quasi commovente Piazzetta della Misura. C'è anche la torre Numai, con un omino guizzante, un po' Marc Chagall e un po' Tullio Pericoli, che dalla sommità si slancia ad inseguire un volo d'uccelli, e intanto grida loro "aspettateni, vengo anch'io". Emanuela Andreatta - La Voce, dicembre 2005...E AL POSTO DELLA LUNA, PESCI
Quando la memoria gioca con la fiaba, l'immagine ri-creata dilata i contorni e si fa scena di un incredibile, fantastico teatro dell'assurdo. Case, alberi, rocche, piazze, chiese assumono gli umori magici dell'evocazione, enfatizzati da una concertazione furbescamente divertita e divertente, per le ambivalenze. Vito Matera propone immagini in cui non vuole tracciare alcun confine tra reale e irreale. Perché dovrebbe farlo? Matera, infatti, non ci pensa nemmeno. Nelle sue opere si respira il gusto del gioco, l'ardita forza dell'immaginazione e lo stupore di una fantasia sempre in fermento. Nessuna meraviglia dunque se gli equilibri sono improbabili e se si assiste ad una sorte di animismo che fa dialogare tra loro le case, le quali si abbracciano, si respingono, volano o stanno a testa in giù secondo una progettualità assolutamente alogica, ma del tutto in linea coi significati, le metafore, l' "intimità" dell'oggetto rappresentato. Più che un viaggio in Romagna, le opere di Vito Matera sono il pretesto per un viaggio nella straordinaria fucina mentale del pittore alimentata da frammenti di ricordi: reinventa i paesi, li manipola secondo percorsi di pura fantasia, ne registra, con sapienza da orafo, i particolari, fa leva sulla raffinata preziosità del segno per convincere sulla veridicità di ciò che invece non esiste, sfrutta l'insaziabile curiosità immaginifica per corredare le opere con riflessioni, frasi o versi depositati nella memoria. Nulla stupisce in queste piacevolissime ed intriganti ambientazioni, neppure lo sguardo sorridente o ironico della luna, né la luce irreale che indulge compiacente sul paesaggio, mentre dal cielo scendono strass di stelle. Queste immagini sono dunque un po' il diario del pittore, un diario non solo estetico, ma che riguarda l'intimità dell'artista e il suo rapporto col mondo circostante. In questo diario Vito Matera percorre una via di divertita indulgenza, di lieve ironia mediata da un'intelligenza che sa venire a patti con la realtà e le allusioni, gli stimoli e le emozioni che la stessa realtà gli ha provocato. Sempre, però, con raffinata eleganza e controllatissima sostanza espressiva. Rosanna Ricci - Dicembre 2005
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PER VITO MATERA
Non conosco il percorso formativo di Vito Matera: non conosco, in altre parole, chi sono o sono stati i suoi padri putativi, e si sa che gli artisti in genere sono sempre figli di molti padri. Ma più mi capita di vedere le sue opere - a intermittenza, ahimè, a intervalli tali che mi precludono la possibilità di tracciare per me un possibile itinerario del suo work in progress - più mi si conferma e rafforza la primissima impressione: che fu (e resta) quella di trovarmi davanti a una singolare, talvolta favolosa testimonianza artistica cui presiede un’esigenza quasi ludica di esprimersi, che costituisce l’assoluta originalità di Vito Matera. Ho a mente per esempio il ciclo dei bestiari, che rappresentò il mio primo incontro con il suo lavoro. Quel misterioso mondo animale d’incantesimi e cabale che ricava dalla mitologia irreale e simbolica, dalle trattazioni medioevali, dagli apocrifi di certa letteratura mistica le origini e la sua più autentica essenza, era ribaltato, da Matera, e “modernizzato” vorrei dire, adattato cioè alla nostra sensibilità e alle nostre capacità di ricezione, in una zoologia fantastica e azzarderei borgesiana, dove il disegno o i colori, se si preferisce, alludevano più che rappresentavano, e dove un sospetto di malizia, e di malizie, proponeva una partitura ricca di succhi inaspettati, nel panorama della nostra arte figurativa. E il successivo periodo degli oggetti di legno o di truciolato, intagliati e ritagliati - un cavalluccio a rotelle, una sedia, una casa, una chiesina di campagna - accentuavano quella propensione al disimpegno, persino a una certa nostalgia o ingenuità dell’infanzia (ma, attenzione, psicologia e psicanalisi ci ammaestrano che le prime manifestazioni artistiche dei fanciulli si traducono sì sotto forma di gioco epperò si rivelano anche come le prime manifestazioni erotiche proprie dell’infanzia), ma al tempo stesso si configuravano come una ininterrotta festosa sequenza di lavori preparatori che preannunciavano — e sarebbero poi confluiti in esso — l’attuale ciclo delle “tabulae pictae”. La definizione è dello stesso Matera: sa di bottega, intendo quella del Medio Evo dove s’andava a imparare dal Maestro il mestiere; e sa di umiltà. Ch’è, anche questa, una caratteristica del “far pittura” di Vito Matera. Si tratta per lo più di facciate di cattedrali romaniche (non per nulla Matera è pugliese) ma, ancora una volta, alluse più che descritte, quasi a smitizzarne la solennità e il mistero per ricondurle a una dimensione più quotidiana e aggiungerei più umana del sacro. E tuttavia nella loro stilizzata geometria, nei lievi ma quanto sapienti accostamenti di colore, in quella inconsapevole indefinita e come astratta atmosfera metafisica che le avvolge patinandole non so di quale arcana lontananza assumono un loro preciso valore metaforico. Rappresentano (sempre) la nostalgia dei giochi? (Ritorna il sentimento ludico accompagnato stavolta da un’ombra d’ironia). Rappresentano il senso del divino, che un ignoto timore riverenziale tende a ridimensionare per una più accessibile comprensione? O, come le ha definite un critico, sono “una rivisitazione della religiosità e dell’architettura sacra diventate sogno e paesaggio incantato”? Gli interrogativi possono moltiplicarsi: ciascuno avrebbe una risposta diversa secondo la sensibilità (e la fantasia) di chi le contempla. A Vito Matera credo sia bastato semplicemente eseguirle, e offrircele: forse il segreto delle sue “tabulae pictae” è nella loro leggibilità, nella loro mancanza di segreti o misteri; forse non è necessario e non ha alcuna importanza che si attribuisca ad esse un significato: come ogni espressione d’arte, a questi simulacri di cattedrali è sufficiente “essere”. Ecco, probabilmente, realizzandole, Vito Matera voleva solo suggerirci questo: la sua gioia di realizzarle, la loro felicità di offrirsi a noi.Michele Prisco - 10 novembre 1997
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